Fabrizio Carcano ci racconta Darryl Dawkins
Nei cinque anni nella nostra serie A, tra A1 e A2, ha tirato con oltre l’80% dal campo, viaggiando sempre intorno ai 20 punti e 10 rimbalzi.
E’ il recordman di rimbalzi in una gara di Eurolega (allora Euroclub): ne arpionò 19 (record ancora imbattuto) nella gara di semifinale del 1992 a Istanbul persa al fotofinish da Milano contro il Partizan di Obradovic e della generazione di fenomeni Djordjevic, Danilovic, Pasplaj, Rebraca e Lonkar.
Parliamo di Darryl Dawkins, showman e dominatore del pitturato, personaggio eroe di due mondi, prima in NBA e poi in Italia, che a fine anni ‘ottanta era una piccola NBA mediterranea.
Gigante ai tempi in cui i giganti non esistevano o quasi: 211 centimetri per 120 kg da giovane, poi una dozzina in più nel periodo italiano.
Tanti soprannomi, uno su tutti, coniato per lui dal mitico Steve Wonder: ‘Chocolate thunder’, tuono di cioccolato per fotografare la sua potenza fisica.
Nella nostra serie A ha giocato due stagioni e mezzo a Torino con altalena tra A1 e A2, poi la stagione 91-92 a Milano, tra luci e ombre e tensioni ‘tecniche’ con Mike D’Antoni, infine un biennio a Forlì in A2.
Una sola vittoria in carriera: la A2 a Torino nel 1990.
Poco, per un giocatore che ha regalato spettacolo vero, ma anche concretezza.
Quando la palla arrivava a lui in area era canestro. Punto.
In quegli anni italiani era una specie di ‘papà di Shaq’, una montagna di centimetri, chili, muscoli.
Il primo Dawkins visto in NBA giovanissimo però era atletico e verticale, molto diverso da Shaq.
Classe 1957, in NBA entra a soli 18 anni, primo giocatore nella storia NBA a saltare il college passando dalla high school ai professionisti: poverissimo, per dimostrare di aver bisogno di lavorare e avere uno stipendio da pro fu costretto a iscriversi alle liste di indigenza.
Lo sceglie Philadelphia dove in sette anni gioca e perde tre finali NBA.
Un triennio di assestamento, per affinarsi tecnicamente, poi dal 1978 il giovane Dawkins cresce di anno in anno e fa la differenza nel triennio fino al 1982.
Punti, rimbalzi, ma anche show: è il primo pivot a valorizzare mediaticamente il dunk, esasperandolo anche, tanto da diventare leggendario per i tabelloni infranti nel riscaldamento o nelle partite.
Istrionico, gigione, abbina la qualità anche tecnica e lo strapotere fisico agli atteggiamenti da personaggio, quasi da Globetrotters in alcuni frangenti, con sorrisi e simpatia contagiosa.
In difesa però è molle, a volte si decontestualizza, non è decisivo ad alto livello: dopo la terza finale NBA persa i 76ers lo sacrificano nell’estate 1982 in uno scambio con i New Jersey Nets per portare, poi Moses Malone a Philadelphia.
I Sixers vincono l’anello nel 1983 e il 25enne Dawkins inizia il declino tra i pro, calando come cifre e impatto.
Restano le schiacciate, ma ormai non esaltano più.
Nella primavera del 1989 accetta di attraversare l’oceano per atterrare a Torino, nell’Ipifim che sta scivolando in A2: porta 20 punti e 10 rimbalzi di contributo ma non basta a evitare la retrocessione.
Poi la facile risalita dalla A2, con Dawkins devastante a 21 di media e oltre 11 rimbalzi: fuori dal parquet trova pure il tempo di allenare una squadra femminile.
Nell’estate 1991 la Philips Milano reduce da una stagione di sole vittorie e due sole sconfitte in gara 5 di finale contro Caserta e in finale di Coppa Italia contro Verona, due sconfitte da zero titoli, lo ingaggia come colpo estivo, ma sbaglia il mercato, affiancandogli l’ala alta Johnny Rogers in un reparto lunghi affollatissimo con Pessina, Baldi e Alberti e carenza di talento e alternative nel settore guardie, con un Riva spremuto senza valide alternative.
L’Olimpia floppa: quarta in campionato e fuori ai quarti di playoff contro Roma, fuori nei turni eliminatori di Coppa Italia, viaggia bene in Euroclub conquistando la penultima final four della sua storia (la successiva arriverà 29 anni dopo, nel 2021) proprio grazie a Dawkins che nella gara di Istanbul contro il Partizan lotta come un leone e chiude con 21 punti e 19 rimbalzi.
Per stampa e tifoseria milanese però è il capro espiatorio dei mali dell’Olimpia, così fa i bagagli e scende in A2, a 35 anni, per un ultimo biennio a Forlì.
Poi una carriera da allenatore lontano dai grandi giri e un infarto a stroncarlo a soli 58 anni.
Di lui resta un’immagine epica del 1989: Dawkins in canotta Ipifim in post basso e McAdoo in canotta Philips, con i suoi 205 centimetri, a marcarlo di spalle in un confronto impari dove Doo sembra così piccolo e leggero di fronte a Chocolate Thunder…